«Starai con me fino alla fine del mondo?». Lo fisso dritto negli occhi e cerco disperatamente di non farmi sopraffare dall’emozione che mi provocano le sue parole. Dopo tutti questi anni mi sembra impossibile che stia succedendo davvero. Io e lui, sotto questo gazebo, dopo così tanti silenzi.
Le sue labbra si increspano in quel suo mezzo sorriso che mi fa perdere la testa ogni volta. Mi cullo nel suo sguardo, nei suoi occhi lucidi ed espressivi.
«Sì, fino alla fine del mondo e poi ancora un altro po’». Le parole gli escono strozzate e capisco che anche lui, come me, è incredulo ma felice. Alza appena la testa e guarda oltre le mie spalle, per poi tornare a fissarmi. Poggia la fronte contro al mia. «Credo sia il caso di levarci dai piedi», e anche se nessuno dei due vuole davvero farlo, mi alzo da sopra di lui e gli tendo la mano.
Pochi secondi dopo, il ragazzo gentile che ci aveva lasciati soli, ci raggiuge sotto i colorati tendaggi che addobbano il gazebo di sfumature calde.
«Almeno ha detto di sì?», fa l’occhiolino a Ben e, il mio ragazzo – no, il mio fidanzato – si lascia andare a una risata liberatoria, che sa di nervosismo mista a genuina felicità.
«Ha detto di sì», gli da una pacca amichevole sulla spalla e mi afferra la mano. Rimango a osservarlo interdetta. «Che c’è?», mi domanda una volta scesi i gradini e diretti verso l’entrata dell’hotel.
«Niente. Sei solo… strano».
«Strano? In che senso?».
«Hai appena dato una pacca sulla spalla a uno sconosciuto. Cioè, tu non fai queste cose. Tu annuisci, sorridi a mezza bocca, eviti le domande e non dai confidenza a nessuno». Le parole mi escono di getto e sembrano un’accusa.
Ben mi passa un braccio intorno alla spalla e mi attira a se. Non sembra essersi offeso ma non risponde comunque. Oltrepassiamo le porte scorrevoli e ci dirigiamo verso gli ascensori.
«Sono cambiate tante cose Blondie in questi anni, sono cambiato io. Ma non è questo il luogo adatto per parlarne». Tira fuori due schede elettroniche dalla tasca posteriore dei pantaloni e me ne passa una. «Ho preso due camere».
«Perché?», domando confusa.
«Perché è giusto così».
«Anche questo fa parte di questa “nuova versione” di te?», lo prendo in giro mimando le virgolette sulle parole nuova versione, sperando di essere riuscita a nascondere la delusione.
«Più o meno», mi spinge dentro l’ascensore e si incolla alla mie labbra in un bacio dolce e disarmante. «Questo non vuol dire che non stia per trascinarti in camera da letto, sia chiaro», dice contro la mia bocca mentre cerco di riprendere fiato.
Le grosse porte di alluminio si spalancano al settimo piano e, ancora mano nella mano, ci dirigiamo lungo il corridoio. Sono stordita dagli eventi delle ultime ventiquattro ore. Insomma… mi ha chiesto di sposarlo! E io credo di aver detto di sì.
Mi fisso la mano sinistra e quell’anellino di plastica con la pietra gialla mi fa sorridere.
Sì, gli ho decisamente detto di sì.
«Stanza 723, signorina. Prego», apre la porta e mi lascia passare per prima. La stanza è molto simile a quella in cui avevamo alloggiato tanto tempo prima, solo più piccola. Ben, con passo felpato, si dirige verso una seconda porta quasi mimetizzata contro la parete, fa scattare una serratura e la spalanca.
«Camere comunicanti?», domando con una punta di ironia nella voce.
Fa spallucce e cerca di nascondere un sorriso. «Non ho detto di esser diventato perfetto!».
La seconda stanza è identica alla prima, con l’unica differenza che tutte le nostre cose sono posizionate ai piedi del letto.
Ci guardiamo per un attimo senza dire niente. Tutto mi sarei aspettata ma mai di sentirmi in imbarazzo con lui.
«Parliamo adesso o dopo?», mi domanda, cercando di trattenere un sorriso.
«Dopo cosa?», chiedo fingendo di non aver capito. Un passo e mi è addosso, mi circonda la vita con le sue braccia forti e mi issa su. Due secondi e il suo corpo mi sta schiacciando contro il materasso.
Non parliamo più, tutto a un tratto le parole sembrano non servire. Non che, con le sue dita fredde che mi accarezzano in modo divino la pelle, mi venga in mente qualcosa da dire che non sia un’imprecazione di piacere!
I suoi occhi si incastrano nei miei e non mi lasciano scampo. Mi spoglia piano, trattenendo il fiato mentre il mio si fa sempre più corto. Lui sembra avere il controllo della situazione, io sono un fascio di nervi. Ho immaginato questo momento troppe volte nella mia testa e ora che sta succedendo davvero ho paura di svegliarmi e rendermi conto che è stato tutto un bel sogno, che non sono mai davvero arrivata in Florida. Cerco di accarezzare ogni centimetro della sua pelle e non lo faccio in modo sensuale. Gli conficco le unghie nella pelle, gli stringo i capelli fra le dita e, non appena le sue mani scivolano fra di noi per spogliarmi completamente perdo la ragione. Non può essere un sogno, il suo corpo contro il mio è troppo caldo e reale per non essere vero.
«Va tutto bene?», mi domanda, la sua voce è morbida e profonda. Il suo sorriso, impercettibile agli occhi di qualsiasi altro essere umano sulla faccia della terra, è una carezza. Annuisco e le sue labbra si posano sulle mie. «Non ti lascerò andare mai più. Mai più, Blondie, mai più».
Faccio una fatica incredibile a tenere a bada le lacrime di emozione che rischiano di esplodere e rovinare questo momento. Gli accarezzo il viso e lascio che sia lui a prendere in mano la situazione e lo fa divinamente.
Il nostro breve e intenso momento di passione nella suite degli sposi non ha niente a che vedere con quello che sto vivendo adesso. Il suo corpo che si plasma con il mio è puro amore. Le sue labbra contro le mie sono acqua. I nostri silenzi spezzati solo dai nostri respiri corti sono una promessa dolce ed eterna.
Mi afferra le mani e intreccia le dita alle sue. Le fa scivolare in alto e le tiene ferme sopra la mia testa, premute contro i cuscini, spingendosi dentro di me ancora e ancora.
Perdo la cognizione del tempo e dello spazio fra le sue braccia esperte. Il passato e tutto il dolore provato in questi anni sembrano essersi polverizzati. Eravamo in questo stesso hotel solo ieri, non è cambiato niente, non me ne sono mai andata…
***
Mi sveglio di soprassalto e mi guardo intorno spaventata. Ci metto un paio di secondi per fare mente locale. Sono da sola nell’immenso letto e il sole è ormai tramontato. In stanza tutto tace, nemmeno un suono attutito che sveli la presenza di Ben. Un orribile sensazione di terrore mi attanaglia alla bocca dello stomaco e mi catapulto giù dal letto, trascinandomi dietro il lenzuolo per coprire il corpo ancora nudo. La porta che divide le due stanze è aperta e mi precipito in stanza.
La finestra cielo-terra del terrazzo è spalancata e le leggere tende svolazzano alla brezza serale. Vedo solo i suoi piedi nudi appoggiati contro la ringhiera e tiro un sospiro di sollievo. Mi avvicino lentamente, trattenendo il fiato, con il cuore a mille, senza motivo.
«Ciao», dico piano, facendogli girare la testa nella mia direzione. Il suo bellissimo viso si illumina in un sorriso che mi fa fermare il cuore.
«Ben svegliata», sposta i piedi dalla ringhiera e si siede composto. Sta bevendo una birra direttamente dalla lattina ed è a petto nudo. Il suo meraviglioso petto nudo, scolpito e così sexy. Indossa solo un paio di boxer neri e i suoi capelli sono sparati in testa… colpa delle mie mani che non hanno fatto altro che infilarcisi dentro e scompigliarglieli.
«Ho dormito tanto?». Mi sarei dovuta vestire. Con solo il lenzuolo addosso mi sento cretina, come se fossi appena uscita dal peggior film erotico mai girato. Ben, neanche mi leggesse nel pensiero, fa scorrere lo sguardo sul mio corpo e i suoi occhi si ravvivano.
«No, mi sono alzato da poco anch’io. Che ne dici di ordinare qualcosa da mangiare? Ci sono ancora delle birre nel mini-bar. Te ne prendo una?».
Scuoto la testa. «No. Vado io, così mi metto qualcosa addosso».
«Mi sembra una pessima idea!».
Sto per tornare in stanza ma la sua mano si posa sul mio polso e mi strattona verso di lui. Gli ricado in braccio, il lenzuolo mi scivola di dosso e riesco ad afferrarlo un secondo prima di rimanere completamente nuda. Nonostante non possa vederci nessuno, non mi piace molto l’idea di starmene sul terrazzo di un hotel con tutto al vento.
Ben solleva un lembo del lenzuolo e mi copre il seno, poi mi avvolge con entrambe le braccia e mi fa aderire al suo corpo, respirando a pieni polmoni la pelle sotto il mio orecchio.
«Devi per forza tornare a Toronto, domani?».
«Già. E tu devi rivelare al mondo intero la tua scoperta, quella che cambierà le sorti del nostro universo», non lo sto prendendo in giro ma lui ridacchia comunque contro il mio collo.
«Quando tornerai?», mi domanda staccandosi appena.
«Presto». Non riesco ad aggiungere altro. Parlarne vorrebbe dire far scoppiare questa bolla magica e affrontare la realtà: quella in cui viviamo a più di mille miglia di distanza. La parte più romantica e sognatrice della mia indole non vorrebbe mai andarsene, quella più razionale mi ricorda che ho un lavoro, una casa, delle responsabilità, un’indipendenza che mi sono guadagnata giorno dopo giorno. È abbastanza scontato che, fra i due, dovrò essere io quella a trasferirsi in Florida, non sarebbe possibile il contrario. E per quanto io sia sicura al mille per mille che niente, niente, mi separerà mai più dall’amore della mia vita, questo ulteriore salto nel vuoto mi spaventa a morte.
Lasciare tutto e ricominciare da capo.
Di nuovo.
«Non mi basta. Ho bisogno di una data», insiste Ben.
Mi scosto da lui e mi alzo dalla sedia. «Non mettermi con le spalle al muro», stringo i pugni e trattengo il fiato notando una nube nera attraversargli gli occhi.
«Facciamo così, vatti a vestire, io intanto ordino la cena», addolcisce lo sguardo e abbassa gli occhi sulla sua birra. Butta fuori tutta l’aria che ha nei polmoni e scuote appena la testa.
Non replico, ho bisogno di schiarirmi le idee e l’ultima cosa che voglio fare è litigare con lui. Non stasera.
Torno dopo pochi minuti, ho infilato gli stessi vestiti che indossavo quando mi ha chiesto di sposarlo. L’anello di plastica ancora sul mio dito, anche se sta già lasciando degli orribili segni che vanno dal verdognolo al viola chiaro. Gli passo un’altra birra, l’afferra ma senza alzare lo sguardo dal menù del servizio in camera.
«Di cosa hai voglia?», mi domanda. Occhi fissi sul foglio plastificato.
«Hamburger e patatine», rispondo senza pensarci troppo. Sorride sotto i baffi e annuisce.
«Due allora». Si alza e mi sorpassa per raggiungere il telefono in camera. Fisso il mare e poi il gazebo buio e spento sotto di noi. Torna dopo pochi minuti e sposta il suo sdraio così che sia proprio di fronte a me. Il suo sguardo triste è disarmante, anche se cerca in tutti i modi di nasconderlo dietro a un sorriso forzato.
«Tornerò presto», esordisco io e lui annuisce. «Devo solo sistemare delle cose. Ho un lavoro e da contratto devo dare…», esito un secondo, poi parlo il più velocemente possibile, «almeno tre mesi di preavviso».
Ben trattiene il fiato e si inizia a mordere furiosamente il labbro inferiore. «Tre mesi», ripete a bassa voce.
«Vale la stessa cosa per la casa», continuo io. «Ben, ho bisogno di fare le cose nell’ordine giusto, stavolta. Lunedì mattina entrerò in ufficio e presenterò le dimissioni, lo farò per noi, ma non chiedermi di abbandonare tutto di punto in bianco solo perché il pensiero di stare ancora lontani ci fa mancare la terra sotto i piedi». Ho bisogno che capisca che questo è un passo troppo importante per entrambi, è definitivo. Dal momento in cui rimetterò piede in Florida faremo sul serio e non posso farlo se prima non avrò richiuso tutte le porte che mi sono lasciata aperta alle spalle.
«Ma è proprio così», stringe forte le labbra. «Senza di te, mi manca la terra sotto i piedi. Ci sono stato per troppo tempo e so che effetto mi fai. So come sono io quando tu non ci sei. I primi giorni sono devastanti, mi manca l’aria persino. E poi comincia l’apatia».
«Non posso semplicemente rimanere qua», dico piano, assorbendo tutte le sue paure.
Si sporge verso di me, distende le labbra in un sorriso e mi accarezza il viso con le nocche. «Lo so, e ti aspetterò».
Gli vado incontro e bacio piano le sue labbra morbide. La sua mano si incastra dietro la mia nuca e mi divora la bocca con un bacio avido e disperato. Veniamo interrotti dal bussare sulla porta un secondo prima che il nostro bacio si trasformi in vestiti lacerati e sesso animalesco.
«Non pensare che sia finita qua», dice lui, senza fiato, mordendomi nuovamente il labbro superiore. Lasciamo che il cameriere apparecchi sul terrazzo e poi ci accomodiamo di nuovo ognuno sul suo sdraio. Addento quel panino come se non mangiassi da una settimana e mi attacco in modo poco elegante alla seconda lattina di birra.
«Dimmi qualcosa che non so, di questi anni passati lontani», dico io.
«Cosa vuoi sapere?».
«Tutto! Cosa facevi a Houston nei fine settimana di libertà? Hai fatto amicizia? Avevi… una ragazza lì?», l’ultima domanda gliela faccio con lo sguardo basso sull’hamburger. Non ho motivo di pensare che non abbia avuto le sue storie, non sono così naïve, ma non credo di voler conoscerne i dettagli.
«Vediamo un po’… andavo a un pub in centro dove il sabato suonavano sempre musica dal vivo, ho conosciuto un po’ di persone lì, e non definirei Trish proprio come “la mia ragazza”. Era più una conoscenza piacevole con la quale passare il fine settimana». Trattengo il fiato e rimango alcuni secondi ferma immobile, con il boccone in bocca.
Trish.
Non la sua ragazza.
Una conoscenza.
Piacevole.
«La senti ancora?», chiedo quando ho recuperato l’uso della parola.
«Ci siamo rivisti qualche volta quando sono tornato a Houston dopo esser ripartito da Toronto, ma no, non la sento più da molto tempo».
«L’anno in cui mi hai lasciato messaggi in segreteria telefonica giurandomi amore eterno e dicendomi che senza di me non vivevi?», domando, il tono esce molto più piccato di quello che vorrei.
«Sì, l’anno in cui non hai mai risposto al telefono nonostante continuassi a ripeterti che amavo solo te. L’anno in cui sei rimasta con Julian», puntualizza lui senza perdere la calma. «Trish è una brava ragazza. È la barista del locale dove andavo sempre. Mi ha tirato fuori dai guai un paio di volte… in quelle sere dove ero particolarmente ubriaco, poco dopo essere arrivato a Houston. Ero uscito da poco di prigione, il lavoro era estenuante, ti avevo persa e mi sembrava di essere finito in un buco nero senza fine. Una sera mi sono attaccato con dei ragazzi nel pub, lei mi ha portato via prima che arrivasse la polizia. Mi ha salvato il culo. Ho dormito da lei quella sera e ho continuato a farlo tutte le volte che potevo allontanarmi dalla base. Non ero innamorato e lei lo sapeva bene, forse sperava che prima o poi succedesse…».
Lascia la frase a metà e ho paura di chiedergli di continuare, ma se dobbiamo ripartire da zero, ho bisogno di sapere cosa è successo in questi anni lontani.
«Perché non è successo?».
«Cosa? Innamorarmi di lei?», scuote la testa e si lascia sfuggire un sorriso ironico. «Perché mio fratello mi ha trascinato con l’inganno a Toronto e ha fatto in modo che ci ritrovassimo nella stessa stanza. In quel momento si è azzerato tutto. Ho capito che non ne sarei mai uscito, mai nessuna avrebbe preso il tuo posto. Così, quando sono tornato a Houston, nonostante le cose fra me e Trish stessero diventando più… stabili… l’ho lasciata».
Il modo in cui pronuncia il suo nome mi fa ingelosire come non pensavo possibile. So che non è mai stato innamorato di Lexy e tantomeno di Tina, ma non pensavo che ci fosse uno scheletro così ingombrante nel suo armadio.
«E se non ci fossimo mai più incontrati?», ho paura della sua risposta ma ho bisogno di sapere. Poso quel che rimane del mio sandwich sul piatto e mi preparo a sentire quello che i suoi occhi mi stanno già dicendo.
Fa spallucce e butta giù un sorso di birra per prendere tempo. «Se non fossi ripiombato nella tua vita, quella sera, a Toronto, staresti ancora con Julian?». Abbasso lo sguardo e me la prendo con le pellicine delle mie unghie. «Andiamo Blondie, non fare quella faccia. Avevamo entrambi un bisogno viscerale di andare avanti con le nostre vite, a qualunque costo. Tu hai trovato Julian sulla tua strada, io ho trovato Trish. Era tutto troppo penoso in quel frangente della mia vita e non mi vergogno affatto di ammettere che avevo bisogno di qualcuno nel mio letto e nella mia testa, anche solo per poche ore una volta ogni quindici giorni. Stavo implodendo e lei mi ha aiutato a non impazzire del tutto».
Mi afferra per i polsi e mi costringe ad alzarmi, per poi trascinarmi sulle sue ginocchia.
«Grazie per avermelo detto», dico a bassa voce. «È bella?», domando con un filo di voce. Mi sento una ragazzina di quindici anni, gelosa e insicura.
Ben scoppia a ridere, mi blocca i polsi dietro la schiena e inizia a mordicchiarmi il mento, risalendo fino all’orecchio. «Oh sì! Una delle ragazze più belle che abbia mai visto». Spalanco gli occhi ma non mi lascia andare. «E sexy…», continua con la sua sensuale tortura a ogni parola, «intelligente… spigliata… e ha un gran bel culo!».
«Ehiiii!!!», protesto io, divincolandomi dalla sua presa salda e mollandogli un pugno sulla spalla.
«Cosa c’è, sei gelosa?», mi stuzzica lui, riprendendo il controllo sul mio corpo e bloccandomi del tutto. «La mia snob del cazzo, così perfettina, sempre sicura di se… è gelosa? Impossibile, ci deve essere uno sbaglio».
«Sono sempre stata gelosa di te», ammetto, lasciandomi andare a un nuovo gemito quando la sua lingua calda scivola dalla mia clavicola su fino alla spalla.
«Ah sì! Come se non sapessi che io non vedo niente all’infuori di te», le sue labbra trovano le mie e mi soffoca con un bacio che vale più di mille parole. Si ferma per far riprendere fiato a entrambi. «Vuoi sapere la verità?».
Annuisco anche se non so bene quale confessione aspettarmi.
«Pensavo di non farcela. In prigione. Pensavo che non ne sarei uscito vivo. L’unica cosa che mi faceva andare avanti era l’idea che una volta fuori avrei potuto chiamarti e dirti come stavano le cose. Non era ancora troppo tardi, me lo ripetevo in testa in continuazione».
«Perché non lo hai fatto?».
«Perché, una volta uscito, ho capito che non sarebbe cambiato nulla. Mi stavano spedendo a Houston, non potevo lasciare il paese, non potevo nemmeno lasciare il Texas se non una volta ogni sei mesi. Mi sono imposto di lasciarti andare, non potevo fare altrimenti. E a te? Quando è successo?».
«Cosa?».
«Quando hai capito che era arrivato il momento di lasciarmi andare?».
Mi sfrego una mano sulla fronte. Rispondergli farà male a entrambi ma credo di dovergli una spiegazione. «Quando sei partito da Toronto, nel cuore della notte, senza dire una parola. Quella mattina mi ero ripromessa di lasciarti andare una volta per tutte. Non lo avevo ancora fatto, anche se pensavo di averti dimenticato».
«Ti avevo detto che sarei tornato».
«Sì, e mi avevi anche detto che mi saresti venuto a cercare fino in capo al mondo, che amavi solo me, che mai niente e nessuno ci avrebbe separato. E poi sei sparito nel nulla. La prima volta che ci siamo lasciati è stato troppo penoso, non potevo immaginare di rivivere quei momenti, non ce l’avrei fatta. Quella mattina Julian si è presentato a casa mia ed era tutto così facile con lui. Lui c’era e tu no. Lui mi capiva e, nonostante avessimo una strada tutta in salita davanti a noi, non ero da sola». Mi copro la bocca con entrambe le mani e cerco di riprendere fiato. Ben non parla, mi osserva da sotto le sue ciglia lunghe e aspetta che continui. «So che non è quello che vuoi farti sentir dire…».
«Eri innamorata di lui». Non è una domanda, ma una constatazione che mi fa gelare l’anima. Non posso rispondere per un milione di motivi. Se ammettessi di non esserlo mai stata davvero dovrei anche ammettere, prima di tutto a me stessa, di essere stata una codarda, una di quelle donne che scelgono la strada senza ostacoli. E dovrei accettare, una volta per tutte, di aver fatto soffrire entrambi inutilmente. Ma non posso nemmeno negare i sentimenti che ho provato per Julian e ridurre il tutto a “un passatempo in attesa che ritornasse il mio grande amore”, non sarebbe giusto e non sarebbe vero.
«Non come lo sono sempre stata di te», dico in fine. «Non è mai stato come avere tutto e non avere niente allo stesso tempo. Con lui era… scontato. Non c’erano le montagne russe e mi andava bene così perché ero stanca di soffrire».
«Non ci saranno più le montagne russe, nemmeno fra di noi», si porta la mia mano sinistra alla bocca e sfiora appena con le labbra l’anellino di plastica. «Avremo una vita lunga e fottutamente felice. Niente più colpi di testa, soprattutto da parte mia. Sono anche disposto a comprare un minivan per quando allargheremo la famiglia».
Scoppio a ridere. «Tu? Un minivan? Venderai la mustang?»
«Certo che no! Il minivan è per te, io non ci salirò neanche morto!», mi sbaciucchia le labbra e io continuo a ridere.
«E compreremo una casa con il giardino?»
«E anche un cane!», sentenzia lui.
«Ho paura dei cani», gli ricordo. «E quanti figli avremo?»
«Almeno due. Facciamo tre e non se ne parla più. Ma non adesso, abbiamo tempo. Dobbiamo prima recuperare tutto il tempo perso».
Annuisco. «Sì, non adesso. Io non so nemmeno cosa farò quando mi trasferirò in Florida».
«Oh vedrai, Cocoa Beach ti piacerà tantissimo e sono sicuro che troverai un lavoro che ti soddisfi».
Alzo gli occhi al cielo. «Ne dubito fortemente. Fammi una promessa: se non dovesse funzionare a Cocoa Beach ci trasferiremo da un’altra parte». Gli porgo il mignolo e lui mi guarda con sospetto, ma alla fine cede.
«Promesso!». Si alza in piedi e riesce a trascinare su anche me senza farmi cadere.
«Dove stiamo andando?».
«Pensavo avessimo finito di parlare? Abbiamo chiarito tutto. Io amo te. Tu ami me. Verrai a stare a Cocoa Beach. Avremo tre figli, un cane e un minivan. Direi che è tutto risolto… ora, se non ti dispiace, sono pronto per il secondo round».
Mi deposita sul letto e prima ancora che riesca a replicare qualunque cosa, la mia maglia vola attraverso la stanza e finisce sulla televisione.
«Abbiamo ancora una cosa di cui discutere», dico io ma non mi sta ascoltando. Le sue mani fredde sono già ovunque sulla mia pelle ma so di dovergli parlare prima che ci dimentichiamo entrambi del mondo. «Dovrò rivedere Julian non appena arriverò a Toronto».
Si blocca all’istante e alza la testa, già sulla mia pancia, pronta a esplorare la zona decisamente più a sud dell’ombelico.
«Perché?»
«Perché ho le sue chiavi di casa e devo recuperare alcune cose nel suo appartamento».
«Potresti farti impacchettare tutto in una scatola, come fanno nei film, e spedirgli le chiavi. Ecco, problema risolto». La sua lingua mi sfiora la pelle sensibile vicino all’inguine e inarco la schiena di riflesso.
«Non funziona così!», protesto debolmente.
«Sei sicura? Perché a me sembra che stia funzionando esattamente come dovrebbe».
«Ben, sono seria», mi maledico da sola mille volte. Perché diavolo sto qui a pensare alle chiavi di casa di Julian mentre l’uomo più spettacolare del mondo sta facendo… quello?
«Anch’io!», si tira su e mi blocca contro il materasso, le sue mani agli angoli del mio viso. «Non voglio che lo rivedi senza di me. Perché tutta questa fretta? Potresti aspettare che io venga a Toronto a trovarti, andremo insieme».
Sorrido e gli bacio la punta del naso. «Perché credo che non si meriti di essere umiliato ulteriormente. Ci ha visti baciarci, l’ho lasciato nel peggiore dei modi, ho scelto te senza pensarci due volte, il minimo che possa fare è restituirgli le chiavi di casa sua, svuotare il suo appartamento delle mie cose e sparire con un milione di scuse e la testa bassa. E lo farò non appena tornerò a Toronto», il mio tono non lascia spazio a nessuna replica. Se pensa che mi faccia piacere affrontare Julian si sbaglia di grosso, ma non ho scelta.
«Sei cocciuta come un mulo!», mi rimprovera lui. «Benissimo, allora mentre tu sarai a Toronto a parlare con Julian, io farò lo stesso qui».
«Cosa? E con chi dovresti parlare tu, scusa?», mi libero dalla sua presa e riesco a farlo girare, mettendomi a cavalcioni su di lui.
«Oh piccola, non hai la più pallida idea di quante donne tristi ci saranno lì fuori quando dovrò comunicare loro che sono fuori mercato. Non vorrai mica che lo faccia per email, vero? O, peggio ancora, aspettare il tuo ritorno per farlo insieme. Sarebbe davvero da maleducati!».
«Non scherzare con me, Carter, o ti prenderò a schiaffi!». Mi afferra la nuca e mi disarma con un bacio famelico.
«Tornerai presto?», i suoi occhi verdi strigliati di turchese tremano per un secondo.
«Così presto che non ti accorgerai nemmeno che me ne sono andata».
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